Regolazione del mercato privato di cura
e forme di "cinismo istituzionale"

di Giuliana Costa - Laboratorio di Politiche Sociali, Politecnico di Milano
Gennaio 2008



La “rivoluzione occulta” nell’assistenza agli anziani, come la chiamò Castegnaro nel 2002, è ormai sotto gli occhi di tutti. Passata sotto silenzio per più di un quinquennio, la questione di come regolare e incorporare al meglio il lavoro di cura privato reso dalle cosiddette “badanti” (o assistenti familiari, come incominciano ad essere denominate) nel nostro sistema di welfare è sotto i riflettori dei policy maker. Il “welfare nascosto” (Gori 2002) sembra essere entrato a pieno titolo nell’agenda pubblica [1]. Nel centro e nord Italia, quasi tutti gli ambiti sociali hanno, in questa seconda tornata della pianificazione zonale (legge 328/2000), approntato una qualche misura rivolta al mercato privato di cura, spesso in collaborazione con i soggetti del privato sociale ed altri attori istituzionali.

Dall’analisi delle esperienze locali concrete emerge però un limite molto rilevante che varrebbe sottolineare in questa fase di ulteriore investimento sull’intera partita. Quasi ovunque gli sforzi di regolazione hanno riguardato esclusivamente le badanti italiane o straniere con regolare permesso di soggiorno e le famiglie che le impiegano. Ne sono rimaste escluse le badanti che sono entrate o sono presenti nel nostro Paese senza titoli per il soggiorno regolare che, secondo le stime più accreditate, rappresentano il 40% del totale (IRS 2006).

Siamo di fronte ad una sorta di “rimozione” del problema da parte dei soggetti pubblici che se ne occupano o ad un’evidente forma di “cinismo istituzionale”: ci si focalizza su una parte del problema agendo come se l’altra, quella non trattata e intrattabile, non esistesse o la si delega all’operato dell’associazionismo (perlopiù cattolico, ma non solo) impegnato nell’erogazione di servizi a favore delle popolazioni migranti. Gli ostacoli di tipo normativo-istituzionale per l’impiego di una badante straniera in maniera regolare sono notevoli se non è già in possesso dei titoli per il soggiorno sul territorio italiano (Ambrosini 2005 e 2006, Mazzacurati 2005). In base alla normativa sull’immigrazione, non è possibile sanare la posizione di uno straniero non in regola già presente in Italia. Per poter restare nel nostro paese e avere accesso ai titoli di permanenza legale che permettono di lavorare, questo deve tornare in patria ed essere richiamato da un datore di lavoro italiano o straniero regolare disposto ad impiegarlo. L’unica via dunque per regolarizzarne la posizione di chi è irregolare rispetto al soggiorno è piuttosto macchinosa e offre poche garanzie di riuscita (i dati relativi agli anni scorsi mostrano come vi sia un alto numero di domande che restano inevase anche attraverso questo unico canale legale, i decreti flusso. L’alternativa finora seguita da lavoratori e datori di lavoro in questi anni è stata quella di aspettare una sanatoria. Così, è la legge stessa ad indurre ad una sorta di “abusivismo di necessità” (Ambrosini 2007): per le famiglie, il fatto di non poter impiegare una badante regolarmente fa si che esse infrangano, di fatto, la legge.

Ora, la quasi totalità delle iniziative locali per la regolazione del lavoro di cura elude completamente la presenza nelle case degli italiani di persone clandestine dato che quasi nessuna di essa centra questa porzione consistente del mercato [2]. Le prove regolative sono attanagliate da una forma di “new localism” (Lovering, citato in Le Galés 2006), vale a dire la tendenza a ridurre i problemi alla scala in cui sono trattabili, scartando dalla definizione o dalla costruzione del proprio oggetto problematico ciò che ne resta escluso, o perché riguarda un livello di governo più elevato o perché non passibile di trattamento da parte delle politiche. Si prescinde e non si tematizza (e in questa mancanza risiede il “cinismo” di cui sopra), la geometria variabile della struttura di vincoli ed opportunità prodotta da altri campi di policy, ad incominciare dalle politiche per l’immigrazione, definite a livello nazionale, e non agibile a livello locale in questo stato di cose (Costa 2006). Così, si danno vita a progetti e attività che, pur importanti nel tentare di strutturare transazioni e prestazioni vitali per la riproduzione sociale, non toccano le frange più vulnerabili del mercato: le persone clandestine e le famiglie che le impiegano perché bisognose di cure continuative non prestate nell’ambito del sistema formale di welfare.

La questione dell’intrattabilità delle badanti clandestine è sempre sottointesa, mai discussa ed esplicitata dato che l’assunto di partenza è che benché vi sia evidente bisogno di intervento nei confronti delle donne migranti clandestine e delle famiglie, non si può agire, in qualità di ente pubblico, attraverso alcuna forma di sostegno, formazione inclusa.

Ci si potrebbe domandare se e quanto ci sia una sorta di opportunismo (anche politico) dietro al silenzio calato su questo argomento: se da un lato l’ampia tolleranza nei confronti di questi arrangements informali tra famiglie e badanti, è penalizzante per le casse dello Stato (per via dei mancati introiti fiscali e previdenziali), dall’altro offre una risposta a molti bisogni di cura e si risolvono problemi altrimenti insolubili a costi e in tempi ragionevoli, anche a scapito della possibilità di governare e qualificare l’intero comparto della cura privata. Molte delle implicazioni di questa rimozione però non sono evidenti. Si pensi anche solo al risvolto raramente discusso nel dibattito dei policy maker, relativo all’impatto negativo che la situazione di clandestinità ha sulla vita dei migranti stessi e sulla possibilità di impiegarli al meglio nel nostro Paese nonché all’ampliamento dell’economia sommersa (Chiuri, Coniglio e Ferri 2007).

Non si vuole contestare l’aspetto esplorativo delle pratiche e delle sperimentazioni in essere, ma solamente rilevare come le politiche messe in atto non prestino sufficiente attenzione alle proprie esternalità, agli “errori e alla grossolanità” (Donolo 2006). Oggi è invece più che mai necessario riconoscere ed assumere gli esiti inattesi di ciò che si va approntando e far sì che i momenti progettuali siano quanto più informati e investiti di significato in partenza. La convinzione di chi scrive è che disegnare la cornice regolativa del lavoro privato di cura può rappresentare un’opportunità molto preziosa, un’occasione per ripensare e riformulare la rete dei servizi ampliando le risorse complessive per il fronteggiamento della non autosufficienza, aumentando il tasso di copertura dei bisogni, incrementando la capacità di regia dell’attore pubblico. Così, affinché il welfare locale possa essere più incisivo e assumere centralità nel più ampio panorama delle politiche pubbliche a sostegno dei cittadini, sarà opportuno non ignorare gli “aggiustamenti informali praticati dalle famiglie” (Ambrosini 2006) e operare con criteri di sostenibilità di lungo periodo (Donolo 2006), mettendo in discussione, come ormai sembra essere necessario, le scelte di policy stabilite a livello sovra-locale.

Bibliografia
 
Ambrosini M. (2007), Una persona di famiglia? Oltre la privatizzazione dei rapporti di lavoro, in "Qualificare" n. 8, www.qualificare.info

Ambrosini M. (2006), Dentro il welfare invisibile. Aiutanti domiciliari immigrate e assistenza agli anziani, in “Aggiornamenti Sociali”, n. 6, pag. 476-488.

Ambrosini M. (2005), L’altro welfare. Famiglie in affanno e aiutanti domiciliari immigrate, in Un’assistenza senza confini. Welfare "leggero", famiglie in affanno, aiutanti domiciliari immigrate, rapporto Fondazione ISMU, www.ismu.org

Castegnaro A. (2002), La rivoluzione occulta nell’assistenza agli anziani: le assistenti domiciliari, in “Studi Zancan”, n. 2.

Chiuri M.C., Coniglio N., Ferri G. (2007), L’esercito degli invisibili. Aspetti economici dell’immigrazione clandestina, Il Mulino, Bologna.

Costa G. (2006), La progettazione delle politiche sociali: temi e prospettive, in “Prospettive sociali e Sanitarie”, Speciale n. 10/11.

Donolo C. (2006), Politiche sostenibili, in Il futuro delle politiche pubbliche, a cura di Donolo C., Bruno Mondadori, Milano.

Gori C. (a cura di) (2002), Il Welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carocci, Roma.

IRS (2006), Il lavoro privato di cura in Lombardia. Caratteristiche e tendenze in materia di qualificazione e regolarizzazione , rapporto di ricerca a cura di Mesini D., Pasquinelli S., Rusmini G., Milano.

Le Galés P. (2006), Le città europee- società urbane, globalizzazione, governo locale, Il Mulino, Bologna.

Mazzacurati C. (2005), La diffusione dell'irregolarità nel mercato dell'assistenza privata, in "Qualificare", n. 2, www.qualificare.info
 

[1] Il livello nazionale di regolazione, finora assente su questa partita, incomincia a muovere i primi passi con la legge 27 dicembre 2006 n° 296 di istituzione del Fondo per le Politiche della Famiglia che, all’art 1, comma 1251, lettera c, prevede di sostenere la sperimentazione di interventi per la qualificazione del lavoro delle assistenti familiari. L’intesa Conferenza Unificata Stato- Regioni del 20 settembre 2007 ha poi lanciato lo schema base per l’attivazione di interventi,iniziative ed azioni finalizzate alla realizzazione delle indicazioni presenti nella legge.
 
[2] Fatta eccezione di alcuni progetti che fanno leva sui decreti-flussi e prevedono un percorso di inserimento di assistenti familiari nelle famiglie che parte dalla loro formazione specifica nei Paesi di origine e si concludono con il loro accompagnamento al lavoro. Il progetto "Occupazione e servizi alla persona" della Regione Veneto è uno di questi, per riferimenti ed approfondimenti, si rimanda a Castegnaro 2006.
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