Vecchiaia e termine naturale dell’esistenza

di Fabrizio Giunco - Centro geriatrico San Pietro, Cooperativa La Meridiana, Monza
Ottobre 2009

 

L’Italia è uno dei paesi più longevi al mondo. La speranza di vita alla nascita ha raggiunto i 77 anni per gli uomini e gli 83 per le donne ma questo dato non esaurisce la novità dei cambiamenti in atto. Sono migliorati i livelli di salute e autonomia degli anziani di ogni età e stanno modificandosi le traiettorie di vita e di malattia. In Italia, l’85 per cento dei decessi maschili e il 92 per cento di quelli femminili avviene ormai dopo i 60 anni, mentre l’età mediana alla morte è di circa 80 anni per i maschi e 86 per le donne. Il fenomeno è in piena evoluzione e condiziona una crescente attesa di vita anche in età avanzata: a 60 anni è ancora di circa 21 anni per i maschi e di 25 per le donne. I cambiamenti coinvolgono in misura diversa i due sessi: la differenza di mortalità è massima fra i 15 e i 34 anni, quando la mortalità maschile è quasi tre volte più elevata di quella femminile per l’influenza di incidenti stradali, suicidi, farmacodipendenza e AIDS; la differenza si riduce nella età più avanzate per annullarsi dopo i 60 anni e invertirsi dopo gli 80, quando si registrano quasi due decessi femminili ogni decesso maschile. Il 59 per cento delle morti femminili avviene comunque dopo gli 80 anni. In questo senso, le ipotesi di Fries (1980) hanno già ricevuto adeguate conferme: nelle popolazioni dei paesi a economia avanzata il rischio di ammalarsi, vedere ridotta la propria autonomia e morire si sta concentrando nelle età avanzate; epidemiologi e demografi parlano di compressione della mortalità, disabilità e morbilità. La velocità di questi processi è diversa: i tassi di mortalità fra gli ultra65enni stanno riducendosi di circa l’1% ogni anno, mentre i tassi di disabilità di circa il 2% (Fries 2003).  In altre parole, la tendenza è quella verso una vita sana e libera da disabilità fino alle soglie della massima aspettativa di vita biologica, stimata in circa 120 anni (Robine 2007), mentre l’invecchiamento delle popolazioni sta determinando non un aumento, ma una riduzione (almeno relativa) del numero di anni trascorsi in cattive condizioni di salute e di dipendenza fisica (Max Plank Institute for Demographic Research). In assenza di eventi sfavorevoli precoci, questi sembrano destinati a concentrarsi negli ultimi 5-7 anni di vita di ogni persona, inevitabilmente associati alla totale dipendenza funzionale e a complessi stati pluripatologici e preceduti da un periodo di crescente fragilità, riduzione delle riserve funzionali di organi e apparati, progressiva inadeguatezza dei sistemi omeostatici e di adattamento alle esigenze ambientali.
 
In pratica, la realtà sta proponendo il modo normale di invecchiare e morire di ogni persona umana che non sia chiamata a confrontarsi con una causa precoce o evitabile di morte o di disabilità. Negli anni a venire, un maggior numero di persone è destinato a morire in età molto avanzata di morte naturale, intendendo secondo questo particolare punto di vista non una morte in assenza di malattie identificabili, ma una morte il cui denominatore comune è rappresentato dal raggiungimento del completo esaurimento delle riserve organiche e dal complessivo collasso del sistema biologico. La realtà sta quindi facilitando la comprensione del limite naturale della fisicità umana. Il corpo biologico non è strutturato per l’immortalità e i diversi sistemi e apparati possono manifestare una diversa cronologia nella manifestazione di questi limiti. Ad esempio, la curva di prevalenza delle sindromi di demenza ha un andamento quasi esponenziale rispetto all’età; la proporzione dei malati sulla popolazione generale appare raddoppiare ogni 5 anni dopo i 65 anni, arrivando a coinvolgere fino ad un terzo della popolazione con 85 anni o più e proporzioni maggiori nelle classi di età successive (Lucca 2003). In altre parole, almeno per le forme di demenza più tipiche, il declino cognitivo potrebbe rappresentare un fenomeno connesso al processo d’invecchiamento biologico (ageing-related), piuttosto che un processo patologico che si manifesta in un determinato intervallo di età (age-related) (Vergani 1997).
 
Questi processi richiedono una maggiore consapevolezza, nel senso comune e nelle politiche sociali e sanitarie. Piuttosto che alla qualità e quantità degli interventi sanitari in senso stretto, i determinanti di questa evoluzione sono correlati al benessere economico e sociale e alla collegata riduzione della mortalità da parto e nel primo anno di vita e delle malattie trasmissibili. Altri miglioramenti sono legati agli interventi sulle cause evitabili di mortalità e disabilità: infortunistica stradale, domestica e del lavoro; abuso di alcool e farmaci; fumo; eccessi nutrizionali; attività fisica inadeguata (Fries 2005, Clarke 2009). Così, gli investimenti più efficaci non sono quelli verso uno sviluppo incontrollato dei servizi sanitari specialistici e superspecialistici. Ricorda Holman: “Durante gli ultimi 50 anni i sistemi di cure si sono dimostrati sempre più inefficaci ed inefficienti: pazienti non coinvolti, ricoveri non necessari, tecnologie costose ma non decisive, accumulo inutile di dati clinici. Tutto ha contribuito alla crescita dei costi sanitari, senza alcuna evidenza di miglioramenti corrispondenti nello stato di salute” (Holman 2000). Questo sviluppo ha introdotto anche variabili negative: consumo inappropriato di farmaci, eccesso di mortalità da interventi chirurgici non indispensabili o da campagne di screening non sostenute da prove di efficacia (Domenighetti 2008). Molto più utili si sono dimostrati gli interventi verso la promozione di stili di vita più sani (Smith 1999), i programmi di informazione e educazione sanitaria, il contrasto delle dipendenze e degli eventi traumatici (stradale, domestica e della strada), il miglioramento della qualità dell’ambiente, il sostegno delle reti di comunità, la crescita di interventi sociali e di sistemi di cure primarie di buona qualità, gli  interventi di rete.
 
Un cambiamento decisivo attende l’atteggiamento nei confronti della fine della vita. Oggi, il dibattito mediatico e politico sui più rilevanti temi etici sembra prescindere dal riconoscimento di un limite naturale dell’esistenza. Persiste un irragionevole senso di onnipotenza piuttosto che il necessario confronto con questo limite: delle potenzialità umane e di quelle della medicina. Al contrario, lo scenario attuale ci propone un esercizio di maturo e consapevole realismo e di nuovo orientamento delle risorse: interventi efficaci e proporzionati sulle cause evitabili di morbilità, mortalità e disabilità; servizi di buona qualità destinati all’inevitabile complessità delle fasi avanzate dell’esistenza
 
Bibliografia
 
Clarke R. (2009), Life expectancy in relation to cardiovascular risk factor: 38 years follow-up of 19.000 men in the Whitehall study, BMJ, 339(163):b3513.
 
Domenighetti G. (2008), Sostenibilità e durabilità dei sistemi sanitari universali, tra medicalizzazione, crisi di finanziamento, razionamento e discriminazione, Janus, 31.
 
Fries JF. (2005), Compression of morbidity. In retrospect and prospect, International Longevity Centre, 2:2.
 
Fries JF. (2003), Measuring and monitoring success in compressing morbidity, Ann Intern Med, 139:455.
 
Fries JF. (1980), Aging, natural death and the compression of morbidity, N Engl J Med, 303:130-135.
 
Holman H. (2000), Patient as partner in managing chronic disease, BMJ, 320:526-527.
 
Lucca U. (2003), Dimensione epidemiologica e impatto economico delle demenze in Italia, EMME Edizioni, Milano.
 
Max Planck Institute for Demographic Research. International Database on Longevity http://www.supercentenarians.org/
 
Robine J-M. (2007), Human longevity research issues. European Forum on Population Ageing Research. 2007. (www.shef.ac.uk/ageingresearch/reviews.php#gld)
 
Smith R. (1999), Editor’ choice, BMJ, 318:1.
 
Vergani C. (1997), La nuova longevità, Arnoldo Mondadori, Milano.
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