Le ombre del benessere nel lavoro di cura. Spunti da una ricerca sul campo

di Paolo Boccagni - Università degli Studi di Trento
Febbraio 2013



Il lavoro di assistenza alle famiglie ha raccolto crescente attenzione, nel contesto italiano, anche per la forte concentrazione di forza lavoro immigrata, per lo più femminile, che ha attratto negli ultimi anni. Se le relazioni di cura a domicilio tra lavoratrici straniere e anziani sono state ampiamente tematizzate, diverse sfaccettature di questo delicato setting d’aiuto rimangono, a oggi, poco esplorate: ad esempio, i significati che le donne migranti attribuiscono al lavoro di cura, il peso di questa esperienza nel loro percorso di vita, o le sue conseguenze per il benessere psicofisico e sociale delle dirette interessate.
 

A queste aree di approfondimento è stato recentemente dedicato uno studio in provincia di Trento, su iniziativa del locale Centro informativo per l’immigrazione (CINFORMI), di cui riporto qui alcune indicazioni salienti.[1] In questo studio si è cercato di interrogare la migrazione delle assistenti familiari, come percorso di ricerca di un maggiore benessere individuale e familiare: una ricerca che nasce senza esiti prevedibili davanti a sé, e va incontro ai limiti, le barriere e i dilemmi che emergono nei rapporti con le famiglie italiane, ma anche con le istituzioni della società ricevente, le reti dei connazionali e i familiari rimasti in patria.
 
In una fase in cui, nonostante la crisi economica, il peso del lavoro straniero di cura non sembra recedere, si fa sempre più chiara la necessità di investire nell’integrazione extra-lavorativa delle assistenti familiari; in altre parole, in molteplici aspetti della loro esperienza di vita che ne possono facilitare il benessere, anche come requisito per l’efficacia e la sostenibilità del lavoro di cura di cui sono co-protagoniste. Sono molti, in questa prospettiva, gli interrogativi che rimangono aperti: che cosa vuol dire “vivere bene” – e che possibilità ci sono di farlo –, a giudicare dalle pratiche quotidiane delle lavoratrici straniere di cura, e dalle loro narrazioni e rappresentazioni discorsive? Quali concezioni tacite di benessere si possono rintracciare all’inizio delle loro storie di migrazione, e in che modo esse evolvono nel tempo, al variare dell’esperienza migratoria? In che rapporto si pongono le concezioni e le aspettative di benessere delle assistenti familiari, per sé e per gli altri, con le loro condizioni di vita reali, e quindi con le opportunità di realizzarle? 
 
Il profilo migratorio tipico delle cosiddette “badanti” – donne di età relativamente avanzata, di origine per lo più est-europea, spesso senza familiari al seguito – rispecchia l’esigenza di mediare, in qualche modo, tra pressioni contrapposte: la quotidianità dell’accudimento agli anziani nelle famiglie italiane, e la domanda di cura di cui anche queste persone, invecchiando, cominciano ad esprimere; la prospettiva di una vita in Italia sovente caratterizzata da segregazione occupazionale, abitativa e relazionale, e quella di un ritorno a casa che è sempre possibile, ma non automatico, e sovente procrastinato.
 
Rilette nei termini della ricerca del benessere, le loro narrazioni segnalano percorsi biografici ambigui. Dentro storie di migrazione guidate dall’aspirazione a “giorni migliori” per i propri familiari, oltre (e spesso prima) che per sé, affiorano rappresentazioni e pratiche del benessere minimali, rinunciatarie, sistematicamente proiettate in avanti. Non sono molti, nella vita quotidiana “da badanti” in immigrazione, i motivi di benessere che colpiscono un osservatore esterno: ad esempio, i legami con i familiari in patria, che possono essere fonte di affetto, gratitudine e riconoscimento; le relazioni significative con un certo numero di “altri di fiducia” e, in varia misura, l’appoggio delle reti sociali delle connazionali; a volte, nei casi più fortunati, i rapporti collaborativi e di mutuo sostegno emotivo con gli anziani accuditi e con i loro familiari. Il senso di “stare bene” che può affiorare da questi spazi biografici è però qualche cosa che si orienta verso altre persone, e altri luoghi, prima che alla vita quotidiana in Italia.
 
In ultima analisi, il confronto tra “come si stava” prima di partire e “come si sta” ora, in immigrazione, rivela la compresenza di molteplici sbocchi, non riducibili a una semplice mancanza di benessere. Emerge con evidenza, tuttavia, la tensione tra i desideri e le aspettative iniziali delle assistenti familiari straniere e i risultati conseguiti con il lavoro in Italia; un dato che invita a rileggere l’idea di benessere in termini sfumati, multidimensionali e incrementali, aperti a una certa discrepanza tra elementi “oggettivi” e “soggettivi”. Rimane, dalle loro testimonianze, una condizione di vita che coniuga una forte vulnerabilità e una altrettanto pervasiva invisibilità; un dato paradossale, questo, per quella che è ormai una componente strutturale dell’offerta di welfare locale in Italia. 


[1] Paolo Boccagni e Maurizio Ambrosini, Cercando il benessere nelle migrazioni: l’esperienza delle assistenti familiari straniere in Trentino, Milano, Angeli, 2012. 
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